Argomento del mese

Paura di morire o paura di soffrire? di Daria Cozzi

01 Settembre 2013
Ho attraversato il dolore e ho cercato di galleggiare per non annegare. Ho capito che quando esso è più grande di noi non possiamo combattere ma solo accettare. Per andare avanti. E vivere ancora. Dalla mia esperienza di vita è nato il mio romanzo “Quattro giorni tre notti” edito da Pendragon e in vendita in libreria o nei siti on line (per esempio amazon, lafeltrinelli, ibs). Il libro sostiene l'attività di A.L.I.Ce Italia Onlus.

Cavalcare le onde del dolore mi ha spinta a tante riflessioni.

Ci sono argomenti che da sempre sono tabù. Fanno paura. Si preferisce non pensarci. Non se ne parla. Uno di questi è la morte. Il solo dire questa parola crea disagio, imbarazzo, fastidio, malessere, quasi che, pronunciandola, la si potesse equipaggiare di un’energia, una forza tale da renderla percettibile, visibile, materializzabile. Non se ne parla volentieri e, quando siamo costretti a farlo, pensiamo che in fondo la cosa non ci riguarda. Almeno non direttamente. Almeno non adesso. Almeno non subito. Ma dentro, giù, nel profondo della nostra coscienza, tutti sappiamo bene che arriverà. Non possiamo scappare. Non possiamo difenderci. E’ l’unica cosa certa della nostra vita. Non sappiamo né quando, né come, né dove. Ma sappiamo che arriverà. Di fronte a lei, siamo disarmati, ci sentiamo impotenti, increduli. Allora cerchiamo di esorcizzarla, dichiarandoci disincantati, indifferenti, indenni, raccontando barzellette o alimentando gossip su di chi è così lontano da noi da non sembrare quasi un personaggio reale. Insomma, cerchiamo un modo per tenerla a bada e renderla finta, distante, impalpabile, innocua. Un modo come un altro per proteggerci.

Ma c’è, oggi più che in passato, un tabù altrettanto dirompente e di certo più inquietante: è il tabù del dolore. Dolore morale. Dolore spirituale. Dolore fisico. Chi di noi non lo teme? Chi di noi non l’ha mai conosciuto? Ed è proprio per questo, per  questo nostro esserci già passati e messi alla prova, questo averlo già sperimentato o forse, per i più fortunati, anche solo sfiorato, che lo guardiamo da lontano, relegato nel nostro passato o nelle storie dei nostri conoscenti e amici, nelle parole della gente, nei telegiornali, nelle notizie che ci forniscono i media, nelle corsie degli ospedali, nei film e nelle fiction della tv. E restiamo senza fiato, come sospesi su di un filo sottile che dondola su un baratro aperto sotto di noi. Non ci resta che sperare che tenga, che non si spezzi, che non ci lasci cadere … perché si, a differenza della morte, possiamo illuderci che non ci prenderà, che non ci sceglierà o che ci darà tregua perché, in fondo, abbiamo già dato. Il mito del superuomo, della vita eterna, del regno di Shangri-La di James Hilton dove spazio e tempo si amplificano all’infinito regalando l’illusione di un’esistenza priva di dolore e di debolezze sono forti esche che fanno gola a tutti.

Ed è così potente, a volte, la paura del dolore, da preferirgli addirittura la fine. La fine di tutto. La fine della vita. Il dibattito sulla dolce morte e sull’eutanasia affolla i nostri quotidiani e abita i nostri pensieri. Chi di noi non ha mai pensato piuttosto che così meglio morire? Eluana Englaro, ricorda suo padre Beppino, lo disse in tempi non sospetti, prima che la tragedia segnasse il suoi lunghi anni di sofferenza. Piergiorgio Welby la scelse con estrema determinatezza, lucidità e profonda consapevolezza come liberazione da una vita diventata ormai inaccettabile più che insopportabile. E’ umano, quando non c’è più speranza, e a volte davvero non c’è, desiderare di andarsene. Ma, diversamente da quello che può essere un inevitabile e inarrestabile declino fisico, il dolore della mente, del cuore, l’incapacità di incanalare le emozioni in un percorso di vita e non di morte, la solitudine, l’incomunicabilità, la delusione hanno sempre una via d’uscita, esiste sempre un’altra chance. Bisogna cercarla, volerla vedere e credere che rappresenti una strada che si può percorrere. A volte si rinuncia troppo presto, c’è poca forza, poco coraggio, poca determinazione a sorreggerci. E allora bisogna cercare aiuto. Ciò che non si può fare da soli forse si può fare se qualcuno ci tende una mano.

Nessuno ci insegna a comprendere ed accettare il dolore come parte integrante e vitale del nostro essere al mondo. Non ci sono scuole o materie di insegnamento che spiegano come fare quando il dolore arriva e che arriverà di sicuro. Nessuno racconta ai bambini che nella vita ci sarà anche l’angoscia, la disperazione, la sofferenza fisica e morale. Lasciamo che sia. Che ognuno si arrangi, in fondo che si può fare? Ma chi non è sufficientemente attrezzato per guardarlo in faccia, il dolore, magari con timore, magari con riverenza, magari con distacco o con rabbia, ha un’unica via: rinunciare alla vita. Assistiamo impotenti al “suicidio da panico” - ed è suicidio anche semplicemente rinunciare a tenere in mano le redini della propria vita - quando forse non tutte le variabili sono state scandagliate per trovare un appiglio che ci permetta di dire si, vado avanti, ce la posso fare e dimenticando che volere è potere e che il contributo della nostra mente, in molte occasioni, è fondamentale per affrontare e superare i momenti difficili.

Allora che fare? Prima di tutto ribaltare gli schemi mentali che sono lesivi della nostra libertà di scelta, perché scegliere si può. Sempre! Molte cose possono aiutare: essere obiettivi e propositivi, smettere di lamentarsi, avere pazienza, sorridere di più, scegliere chi frequentare, tagliare i rami secchi che ci prosciugano l’energia, accettare il confronto, nutrire le buone amicizie, accettare l’aiuto di chi ci vuole bene, imparare dall’esperienza invece che sprecarla, guardare come fa chi è più bravo di noi, essere curiosi, acquistare dei buoni libri, rivolgersi ad un professionista competente. Ma sono solo degli esempi ed ognuno ha la sua strada. Siamo sempre responsabili della nostra capacità di affrontare il mondo e dobbiamo operare scelte consapevoli solo così potremo smettere di attribuire agli altri la colpa per le nostre sofferenze. Non è facile ma … se qualcuno ci riesce perché non potremmo farcela anche noi?

ALICe

A.L.I.Ce. Italia ODV

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