Novità scientifiche

In Rete perché l’ictus infantile non sia più una condanna

19 Giugno 2015

Un vaso sanguigno che si chiude o si rompe. Così una porzione di cervello muore condannando alla disabilità o alla morte. Succede ogni anno a due-tre nuovi nati su mille. Uno di essi è Mario dalla cui esperienza è nata rete in grado di aiutare altri bambini fino a oggi lasciati al loro destino

Mario è nato da soli dieci giorni e il suo destino potrebbe essere già del tutto segnato. In una manciata di istanti dalla nascita, o subito prima, o durante, si è forse già giocato l’uso delle gambe, delle braccia, del collo. La possibilità di correre, di guidare, di prepararsi il pranzo da solo, di abbracciare qualcuno. 

Lo stroke

Il suo male viene da un punto non ben identificato dentro la testa e, come un’ombra nera che si espande si porta via, un neurone dopo l’altro, il 40% del cervello. Si chiama stroke o ictus perinatale.Succede quando un minuscolo grumo di sangue interrompe per un istante un vaso sanguigno cerebrale, o quando uno di questi vasi si rompe. E quando succede, una porzione del cervello rimane a secco di ossigeno, le cellule di quest’area muoiono una in fila all’altra, come tessere di un domino. Se si è fortunati, c’è la possibilità di poter convivere con una lesione al cervello e far fronte alla disabilità che comporta. Chi è meno fortunato, muore sul colpo

Quando lo stroke si porta via i neuroni di Mario, nel gennaio 2011, nessuno se ne accorge. Le visite di routine riportano dati nella norma e, superato lo stress del parto, mamma e papà sono pronti a portarlo a casa. Ma un’ecografia cerebrale, capitata solo perché in quel reparto è in corso un protocollo sperimentale, irrompe come un’istantanea a sbattere in faccia a tutti la realtà: l’emisfero destro di Mario è quasi tutto spento; la sua corteccia motoria è compromessa; il lato sinistro del suo corpo potrebbe essere rovinato per sempre. 

Nessuna via d’uscita

La cura non esiste. Esiste solo sperare che le prospettive siano più lievi del previsto e al massimo provare a tamponare i danni. L’unica via percorribile è la fisioterapia. Mario inizia così sin da piccolissimo la sua tabella di marcia, piena di esercizi come rotolare su un fianco, impugnare una matita, provare a ad aprire e a richiudere una scatolina. Una gavetta fatta tutta di corridoi d’ospedale, ambulatori, termini medici incomprensibili e, non bastasse, vissuta tra due genitori increduli e disorientati che davanti alla scatolina pensano: «Si è giocato quasi metà cervello e ora tutto quello che possiamo fare è questo?».  

È la storia, purtroppo, di una famiglia come tante: lo stroke nel mondo colpisce infatti due-tre nuovi nati su mille ogni anno. Bambini con una scarsissima probabilità di raggiungere l’autonomia e che sono costretti a trascinare il fardello della disabilità per tutta la vita. 

Ciò nonostante, contro lo stroke si fa poco o niente. Persino la diagnosi precoce, quella rivelatrice per Mario, non avviene di default subito dopo la nascita ma, nella maggioranza dei casi, tra i due e i tre anni, quando i sintomi di un ritardo nello sviluppo sono evidenti e, pur scovandone la causa nel cervello, molte opportunità se ne sono già andate. 

Un cervello plastico

La contraddizione è infatti che il picco della plasticità cerebrale, cioè della capacità dell’encefalo di modificare la propria struttura in base all’attività neuronale, creando nuove sinapsi e rimettendosi in moto nel tentativo di compensare la lesione, è proprio tra zero e i tre anni. E questi bambini, se diagnosticati così tardi, si perdono i benefici di un intervento immediato. 

I genitori di Mario, diagnosticato prestissimo, decidono perciò di giocare d’anticipo e di investire tutto in questa fase precoce dello sviluppo, senza accontentarsi dell’unico percorso di fisioterapia che viene loro presentato. Inizia un periodo di ricerca frenetica verso medici e strutture che possano fare di più, ma è tutt’altro che semplice.

I neuroni specchio

Vengono a conoscenza quasi per caso di un protocollo ancora in fase di test presso l’IRCCS Stella Maris di Pisa per la riabilitazione di bambini piccolissimi con difficoltà motorie attraverso i cosiddetti  neuroni specchio. Si tratta una classe di cellule del cervello che si attiva ogni volta che compiamo un'azione sia quando vediamo qualcun altro che la compie. La loro scoperta, circa 20 ani fa, proprio da parte del neuroscienziato italiano Giacomo Rizzolatti, ha rappresentano una chiave di volta per il recupero dalle lesioni poiché sono risultati in grado di preparare il nostro sistema nervoso a imitare le azioni degli altri. 

L’approccio terapeutico che è nato da questa scoperta si chiama Action-Observation therapy. Consiste nell’osservazione (per esempio in video) di persone che compiono movimenti specifici, sempre più complessi, e punta risvegliare le funzioni motorie perse a causa delle lesioni cerebrali. Sugli adulti i risultati sono molto promettenti, e gli scienziati stanno cercando di capire se possa essere ancora più efficace quando applicato nei bambini più piccoli. Ma pochissimi medici ne sono a conoscenza. 

Mario inizia così una nuova serie di esercizi, tutti mirati ad attivare il suo “sistema specchio”: guardare gli altri afferrare gli oggetti, più che essere forzato a farlo in prima persona, potrebbe riaccendere i meccanismi che lo stroke ha mandato in fumo. 

A piccoli passi 

Dopo qualche mese di terapia, Francesca e Roberto, i suoi genitori, si rendono conto che lo specchio che Mario sta assorbendo non è solo la mano che impugna la matita, o che apre e chiude la scatolina: lo specchio sono anche le loro facce, il loro atteggiamento, il clima che si respira in casa. Lo specchio sono loro, le cose che fanno, il modo con cui affrontano le loro giornate. Capiscono che il bambino va stimolato a 360°, non solo nella sua “parte mancante”

È  un cambio di prospettiva che cambia tutto, e i risultati non tardano ad arrivare. Pur a piccoli passi. 

A due anni e mezzo Mario inizia a camminare. Oggi, a quattro anni e mezzo, è in grado di correre e giocare con gli altri bambini della sua età.

Fight The Stroke

La famiglia decide subito di condividere l’esperienza e si ritrova (dopo una lunga selezione) a raccontarla nel giugno del 2013 sul palco del TED Global, dove le energie messe in campo per affrontare la malattia di Mario si materializzano come una delle “idee che meritano di essere condivise”. E possono essere prese a esempio dalle persone di tutto il mondo che hanno guardato il loro video (a oggi quasi 900 mila) e a chi lo guarderà in futuro. 

Dalla stessa volontà di condivisione nasce in contemporanea Fight The Stroke(#fightthestroke), prima una semplice pagina Facebook, oggi una vera e propriacommunity, che in meno di un anno ha trovato una risonanza di oltre 200 genitori con lo stesso problema solo in Italia, e ha creato contatti con scienziati di punta su scala internazionale. 

«Nel nostro Paese, ma anche a livello globale, manca un tessuto di supporto per i bambini e i giovani colpiti dallo stroke», ci spiega proprio Francesca Fedeli, la mamma di Mario (e autrice del libro Lotta e sorridi. Una storia d’amore e scienza, Sperling & Kupfer, dove racconta la loro storia). «Non esiste una struttura di riferimento, fatta di specialisti, che aiuti le famiglie a gestire quello che di fatto è un dramma», continua. «Con questo network vogliamo evitare che altri si ritrovino nella situazione in cui ci siamo ritrovati noi, che siamo dovuti partire da zero, muovendoci praticamente al buio per trovare una strada che fosse adatta al nostro bambino». Con Fight The Stroke è nato insomma un punto di riferimento, per l’Italia ma anche per l’Europa, per conoscere questa malattia, raccogliere fondi, informarsi sulle possibilità e gli studi clinici, mettersi in contatto con i medici e con le famiglie dei pazienti per far sì che non si perda il tempo prezioso che i bambini hanno a disposizione per lottare contro il danno cerebrale. 

Ma non solo. Grazie a questo progetto, che ha chiamato all’appello medici, pazienti, terapisti, tecnologi e sviluppatori, è appena nata anche una nuova piattaforma tecnologica per la neuroriabilitazione che, oltre a sfruttare il meccanismo dei neuroni specchio, si avvale del peer to peer learning, cioè dell’apprendimento reciproco tra bambino e bambino, che si sta dimostrando in molti casi più efficace di quello tradizionale.

Il prototipo prevede che con l’uso del Kinect (sì, la console che si usa per i videogiochi) diventi possibile fare riabilitazione mettendo in contatto i bimbi tra di loro, utilizzando lo schermo del televisore come finestra per comunicare e il gioco come linguaggio. «In questo modo Mario può guardare quello che fa Juan, che vive in Sud America, e viceversa, e i due possono interagire e imparare l’uno dall’altro», ci spiegano i genitori: «E questo direttamente dal salotto di casa, senza passare per l’ospedale». 

Un’idea (il cui potenziale è stato riconosciuto dalla stessa Microsoft) grazie alla quale i bambini come Mario, e le loro famiglie, non saranno davvero più soli. 

 

Fonte: HD HealthDesk, articolo di Alice Pace, Giovedì 18 Giugno 2015

 

 

ALICe

A.L.I.Ce. Italia ODV

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