Secondo la quasi totalità dei cardiologi le persone con fibrillazione atriale non valvolare arrivano tardi alla diagnosi. E non sempre ricevono le cure più adatte
Il 98 per cento dei cardiologi ritiene che le persone con fibrillazione atriale non valvolare (Nvaf) arrivino tardi alla diagnosi, principalmente (86%) perché non presentano sintomi, ma anche (40%) a causa della scarsa consapevolezza tra i medici di medicina generale e della popolazione in genere (36%).
È uno dei risultati di una survey condotta tra luglio e agosto 2014 dalla statunitense Harris Poll per conto di Daiichi-Sankyo in partnership con la Heart Rhythm Society su 1.100 cardiologi di tutto il mondo. Tra i Paesi coinvolti, l’Italia non c'è, ma è già previsto che entrerà nella prossima ”tornata“.
L'indagine, presentata al Congresso della Società europea di cardiologia (Esc) a Barcellona che si è concluso mercoledì 3 settembre, ha esplorato anche i bisogni insoddisfatti nella gestione della Nvaf, come l'assistenza coordinata tra le diverse figure sanitarie coinvolte e il ruolo del caregiver. Quanto alla prima, secondo il sondaggio l'84% dei cardiologi ritiene che il coordinamento degli operatori sia importante per la gestione della patologia e tuttavia solo uno su tre (33%) ritiene che allo stato attuale questo sia adeguatamente realizzato nei rispettivi Paesi. Il ruolo del caregiver, poi, è considerato importante nell'aiutare i pazienti a gestire la patologia, ma per il 75% dei cardiologi potrebbe esserlo ancora di più. In media, i cardiologi hanno riferito che poco meno della metà dei loro pazienti Nvaf ha un caregiver e quasi tre su quattro (il 73%) credono che coloro che lo hanno siano in grado di gestire meglio la propria condizione rispetto a quelli che non lo hanno.
D'altronde, la maggioranza (58%) dei cardiologi concorda sul fatto che non esiste un paziente ”tipico“ e, anzi, per l'88% i pazienti sono diversi tra loro e perciò è importante concentrarsi sulle caratteristiche di ciascuno per un'adeguata gestione della malattia (peraltro, secondo l'indagine, ogni paziente Nvaf presenta in media tre condizioni di comorbidità).
Dall'indagine risulta inoltre che i primi tre fattori (su una lista di 23) considerati molto importanti o importanti dai cardiologi nella gestione della terapia anticoagulante per la prevenzione dell'ictus sono il rischio di sanguinamento del paziente, una storia precedente di ictus emorragico e la compliance del paziente stesso. Invece, i primi tre motivi per cui alcuni non ricevono un trattamento con anticoagulanti orali per la prevenzione dell'ictus sono il rifiuto del paziente, l'alto rischio di sanguinamento e le controindicazioni. I cardiologi che hanno almeno alcuni pazienti non in trattamento con anticoagulanti orali (Oac), però,ritengono che in media uno su tre presenti un livello di rischio di ictus tale da giustificare, sulla base delle attuali linee guida, una terapia Oac.
A proposito di terapia in pazienti con Nvaf, Daiichi Sankyo ha presentato a Barcellona anche un’analisi dei dati di uno studio di fase III (ENGAGE AF-TIMI 48) che ha valutato l’efficacia di edoxaban, un anticoagulante orale di nuova generazione in fase di sperimentazione, a dosaggi ridotti (e quindi con un minor rischio di effetti collaterali).
«Questa - ha illustrato Christian Ruff, medico del Brigham and Women Hospital di Boston e tra gli autori dello studio «è la prima analisi che metta in relazione la dose di edoxaban, la sua concentrazione, e l’attività anti-fattore Xa con l’efficacia del farmaco e il rischio di emorragie», il rischio più temuto associato agli anticoagulanti. «Abbiamo somministrato una dose di edoxaban ridotta a pazienti con precisi caratteristiche cliniche note per aumentare il rischio di emorragia. L’analisi ha mostrato che, mentre le concentrazioni di edoxaban e l’attività anti-fattore Xa sono diminuiti in questi pazienti, i tassi di ictus o eventi embolici sistemici [i parametri di efficacia, ndr] erano coerenti con quelli che non hanno ricevuto una riduzione della dose».
Il farmaco, insomma, previene l’ictus (la complicanza più seria della fibrillazione atriale) anche a bassi dosaggi, consentendo così di scongiurare gli effetti collaterali.
Fonte: HD HealthDesk Redazionegiovedì 4 settembre 2014