Il fatto che la popolazione stia progressivamente invecchiando non è una novità. È di recente la notizia, diffusa dall’ultimo rapporto Istat, secondo cui il 22% degli italiani ha più di 65 anni. Ciò che dovrebbe farci riflettere è che la redistribuzione demografica in atto farà sì che, per la prima volta nella storia dell’umanità, il numero degli anziani supererà quello dei bambini al di sotto dei 5 anni e il segmento di popolazione ultraottantenne risulterà pressoché triplicato. Inoltre, il cambiamento radicale non sarà prerogativa esclusiva dei Paesi a reddito più elevato, ma assumerà una dimensione globale.
All’evoluzione demografica si è affiancata negli anni una parallela transizione epidemiologica nel tipo di patologie preminenti. Da una maggiore prevalenza di malattie infettive e carenziali, si è passati a una preponderanza di patologie cronico-degenerative, soprattutto a carico dei sistemi cardio-vascolare e neurologico, caratterizzate da ridotta letalità ma elevato carico di disabilità. Tale transizione sta rapidamente interessando anche i Paesi a medio e basso reddito, assolutamente impreparati, sia dal punto di vista delle conoscenze che delle risorse, a fronteggiare una situazione senza precedenti.
Qualora non fossero tempestivamente messe in atto misure adeguate a fronteggiare il problema, la doppia transizione demografica ed epidemiologica e il conseguente impatto socio-economico rischiano di dare l’avvio al cosiddetto “longevity shock”, trasformando la longevità, che normalmente dovrebbe considerarsi una delle maggiori conquiste dell’umanità, in una minaccia incombente. Parafrasando il titolo di un recente editoriale sull’emergenza invecchiamento in Cina, è necessario capire come togliere l’innesco a questa “bomba a orologeria”.
Per affrontare la sfida è indispensabile ribaltare il nostro modo di concepire l’invecchiamento, che va visto come processo multi-fattoriale che investe l’intero arco della vita, caratterizzato da una progressiva perdita delle capacità funzionali e da una crescente comorbidità. Lo stato di salute dell’anziano non deve più essere identificato unicamente con la ridotta presenza di malattia (Healthy aging invecchiamento in salute) ma con il mantenimento del benessere psico-fisico e relazionale (Active Aging invecchiamento attivo), pur in presenza di polipatologie.
Il termine “attivo” non va riferito semplicemente all’efficienza fisica, ma alla conservazione di un ruolo attivo e riconosciuto nella vita economica, socio-culturale e civica della comunità.
La vera sfida quindi è quella di preservare le capacità funzionali e l’autosufficienza dell’individuo nel corso degli anni, limitando e ritardando l’insorgenza della disabilità. Di conseguenza, è necessario spostare l’attenzione dal prolungamento della speranza di vita alla qualità degli anni vissuti. Il grafico in alto utilizza un indicatore specifico (Dfle disability free life expectancy) che quantifica quanti degli anni dell’attesa di vita media a una determinata età saranno presumibilmente vissuti in assenza di disabilità (limitazioni relative a movimento, attività quotidiane, comunicazione). Specifici interventi di politica sanitaria, sociale ed economica dovrebbero essere mirati proprio a ridurre la speranza di vita con disabilità (in giallo nel grafico). Al contrario tale quota è rimasta pressoché costante nel corso degli anni, mantenendosi di poco inferiore ai 3 anni negli uomini e superiore ai 5 nelle donne, rivelando un’evidente diseguaglianza, che si riscontra anche a livello geografico, con condizioni mediamente peggiori per il centro-sud rispetto al nord Italia.
Le attività di ricerca epidemiologica dell’Istituto superiore di Sanità in tema di invecchiamento recepiscono l’attuale orientamento e sono volte ad acquisire una visione d’insieme dei meccanismi e dei processi che dalla vulnerabilità portano all’instaurarsi, spesso concomitante, di particolari condizioni patologiche e alterazioni funzionali età-correlate. Soprattutto attraverso lo studio di vaste coorti di popolazione anziana, seguite nel tempo, si ha la possibilità di individuare i fattori, non solo sanitari, ma anche gli stili di vita e le caratteristiche sociali, cognitive, economiche e ambientali che favoriscono l’invecchiamento attivo e in buona salute.
L’Iss è uno delle istituzioni italiane designate dal ministero della Salute a partecipare alla Joint action europea sulla fragilità dell’anziano Managing frailty. A comprehensive approach to promote a disability-free advanced age in Europe: the Advantage iniziative. Le attività Advantage hanno avuto inizio lo scorso gennaio e avranno la durata di tre anni, con la partecipazione di 22 Stati membri, rappresentati da 35 organizzazioni.
Le Joint Action si differenziano dai progetti di ricerca europei perché coinvolgono gli Stati membri, e non le singole istituzioni di ricerca, i quali decidono di unire le proprie forze e cofinanziare un’azione comune, volta a trovare soluzioni condivise e praticabili per fronteggiare determinate emergenze di salute, in questo caso la fragilità. Sebbene il concetto di fragilità e la sua prevalenza nella popolazione siano ancora abbastanza controverse, può essere definita come uno stato di vulnerabilità a fattori di stress endogeni ed esogeni che espone l’individuo a un maggior rischio di esiti di salute negativi e alla diminuzione delle capacità funzionali residue, interessando circa il 10% degli ultrasessantacinquenni (circa il 40% in uno stato di pre-fragilità). Lo stato di fragilità frequentemente anticipa l’insorgenza della disabilità e, a differenza di questa, può essere reversibile. Per tale motivo, a livello di salute pubblica, è fondamentale elaborare una strategia comune per la prevenzione, la diagnosi precoce, il monitoraggio e la gestione multidimensionale della fragilità, basata sull’evidenza scientifica e sulle esperienze pregresse.
Fonte: Sole 24 Ore Sanità, articolo di Lucia Galluzzo (ricercatore in epidemiologia dipartimento malattie cardiovascolari, dismetaboliche e dell’invecchiamento, Istituto Superiore di Sanità) 9 giugno 2017